La fiducia è misura e fondamento della relazione. Di ogni relazione? Anche quella genitore-figlio?
Il metro dell’amore.
Il modo più semplice e, forse, anche il più naturale per avere una misura della relazione è di ricorrere al metro dell’amore. In altre parole, sentire e sapere di amare qualcuno è tutto ciò che conta, il resto – il modo in cui si declina quell’amore- è cosa di minor conto. In questo senso la condotta amorosa sta all’amore, come gli abiti stanno alla bellezza: possono esaltarla, possono mortificarla, ma resta, di fatto, che non sono l’amore.
Purtroppo, come accade per la stragrande maggioranza delle cose naturali, per quanto innate, esse diventano sempre le più difficili da raggiungere. Non so se questo sia l’effetto di una degenerazione della “civiltà”, ma la gran fatica che noto da parte di tutti per “tornare alla natura” (che sia la vita in campagna, la meditazione, i cibi naturali, e adesso anche l’uomo e la donna naturali, senza trucco, senza silicone, senza steroidi, senza depilazioni) e nel fare addirittura di questo lo scopo di una vita sono, a mio avviso, un chiaro segno degli effetti della presunzione dell’uomo civile, che, sostituitosi in qualche modo al Divino (che sia Geova, Buddha, Cristo o la Natura), ha voluto farsi dio lui stesso e creare nuovi principi e nuovi obiettivi, vanificando l’opera di milioni di anni di Evoluzione.
Ma perché è difficile amare in modo naturale, animale, aggiungerei? La risposta va cercata nella fiducia, nell fidarsi dell’altro, ma ancor di più di sé stessi, del proprio valore.
Brevissima digressione sull’amore animale: gli animali non amano propriamente, l’amore implica un grado di consapevolezza e una capacità di vedere in prospettiva e in prospettive diverse (almeno la propria e quella altrui) che gli animali chiaramente non hanno. L’accudimento della prole o la difesa del partner sessuale (anche se si tratta di condotte limitate nel tempo) possono considerarsi, però, precursori dell’amore così come lo intendiamo noi. E nella loro veste essenziale possono essere illuminanti riguardo alle condotte amorose umane.
Ritorniamo alla fiducia. Nello specifico della relazione genitore-figlio, è chiaro che un genitore non può che fidarsi di un figlio, tabula rasa, creta nelle sue mani –o quasi.
Dov’è, allora, che la fiducia fa acqua in questo specifico rapporto?
Se non è l’uno, è l’altro: è la fiducia in sé stessi! Qualcuno (magari qualcuno di importante per noi: i nostri genitori, un nonno, un maestro) ha trattato noi, genitori, con sfiducia, ci ha fatto credere che non bastassimo, che l’amore che naturalmente nutrivamo per lui/lei non fosse abbastanza e, per estensione, che nemmeno noi lo fossimo (abbastanza), dando il via a un circolo vizioso che può sopravvivere a numerose generazioni. Chissà quale progenitore “affettivamente aberrante” ha pervertito la regola naturale per cui l’amore di un genitore e di un figlio sono per definizione indubbi e sufficienti, e lo ha inserito in un sistema di messe alla prova, test ed esami, dubbi e recriminazioni.
Se questo ragionamento è esatto, la soluzione sta nel fidarsi di e nell’affidarsi a l’amore naturale e -perché no?- nell’ispirarsi all’amore naturale così come lo si osserva negli animali, che si fonda su quattro semplicissime regole.
Quattro semplici regole
Prima regola: non c’è dubbio che il genitore ami il figlio e il figlio ami il genitore (trascuriamo le diverse motivazioni di questo attaccamento, legate anche alle diverse capacità fisiche ed intellettive a loro disponibili). Nel caso degli uomini, questa prima regola non implica che non ci possa essere antipatia e, a tratti, anche odio tra i due. Per fortuna, la natura dell’uomo è poliedrica -“unus et multi in me” dice l’Imperatore Adriano di Yourcenar- e da essa scaturiscono relazioni complesse e poliedriche, dove parti di noi possono amare parti dell’altro e, al contempo, parti di noi possono detestare altri aspetti di chi è in relazione con noi. Senza necessità di dover scegliere un’istanza e sacrificare l’altra, negando, sublimando, spostando.
In questa moltitudine di “Io” uno di essi ha un legame con le origini che viene prima di tutto e resta dopo tutto, un legame insolubile. Lo dimostra il dialogo interiore che si continua ad avere con i propri genitori, anche quando non ci sono più o non ci sono nella pienezza delle loro facoltà; il ritornare spesso al ricordo del loro agire o delle loro parole per trovare ispirazione, suggerimenti e conforto su come comportarci; le risorse investite in anni di terapia tesa a trovare la giusta collocazione a questo rapporto, magari turbolento (e si noti, non ho parlato di cancellare il rapporto).
Seconda regola: fornire al piccolo nutrimento – anche intellettivo e affettivo- perché possa crescere sano e forte.
Terza regola: proteggere il piccolo dai pericoli, senza celarglieli. Come in una danza rituale, si mostra la realtà senza che gli spettattori ne vengano contaminati o feriti, ma perché al tempo possano trarne insegnamento ed ispirazione.
Quarta regola: lasciarli andare, con calma. La maturità e l’autonomia non sono concetti tutto-o-nulla, anzi sono graduali, in continua evoluzione. Così lasciare andare un figlio vuol dire dapprima lasciare che mangi da solo, poi che da solo si lavi, faccia i compiti e vada a scuola; più in là lo lasceremo decidere come vestirsi, quali amici o amori coltivare oppure quale università o lavoro intraprendere.
Una caratteristica esclusiva della nostra specie è il perpetuarsi di questa relazione anche quando la prole ha raggiunto l’età adulta, cosa che non si osserva in altre specie, dove il raggiungimento della maturità sessuale sancisce la rottura del legame e l’oblio della parentela. Questo protrarsi del rapporto e la gradualità con cui si definisce l’autonomia sono esclusiva dell’essere umano. Nell’essere umano di italica progenie il processo dell’autonomia trova non poche difficoltà a prender forma: a seconda della prospettiva da cui si osserva la questione, un genitore che favorisce l’autonomia dei figli (anche se i “piccoli” hanno trent’anni) sta macchiandosi di abbandono e incuria, un figlio che coltiva la propria autonomia si macchia anche lui di abbandono, ma qui si aggiunge anche la colpa della ingratitudine. Insomma, come fai, fai male, e molti semplicemente non fanno, improvvisano.
A questo punto, il ruolo di un buon genitore non è più quello di anticipare il figlio nel cammino della vita, di battere il bastone a terra per metter in fuga i serpenti nascosti negli sterpi o farsi scudo ad ogni fulmine che il cielo manda. A questo punto il ruolo di un buon genitore è solo quello di accostare silenziosamente e nell’ombra i passi del figlio, di esserci per soccorrerlo, lasciandogli, però, vivere i propri dolori, le proprie frustrazioni, le proprie felicità.
Come in ogni rapporto il ruolo di chi ama è semplicemente -e difficilmente- esserci, esserci come testimone.
Prof. Giuliana Lucci
Neuropsicologa e Psicoterapeuta